Il Romanzo - Primo
capitolo della trilogia “Racconti degli ultimi giorni”
Kazakhistan, anni
Ottanta. Il capitano Chabarov, al comando della sesta compagnia, una primavera
s’imbarca in una missione apparentemente semplice e logica, ordinando ai suoi
uomini di piantare, anziché divorare, la propria magra razione di patate.
Venuto l’autunno, ce ne sarà in quantità per tutti, e la loro dura esistenza in
questo remoto avamposto diverrà leggermente più sopportabile. Il problema è che
questo “surplus” si rivela essere di proprietà dell’esercito, e il consumo non
autorizzato di beni statali è perseguibile come tradimento. L’unità militare di
Chabarov è annessa a una colonia penale sovietica collocata nelle aride pianure
dell’Asia Centrale. Per lo stato, essa fornisce un ambiente ideale per la
rieducazione sociale, oltre che una miniera di risorse minerali. Tanto per i
prigionieri quanto per i soldati coscritti mandati laggiù, la steppa è una
terra desolata che non lascia speranze. Nessuno di loro è lì per propria
scelta, ed entrambe le categorie si ritrovano a condividere la stessa fame, la
stessa noia, la stessa alienazione. Mentre la vicenda delle patate si sviluppa
grottescamente nelle successive indagini condotte da un perverso inquirente
della sezione speciale, affondando il protagonista in uno stato di assente
depressione, prendono vita e colore tutta una serie di assurde vite secondarie,
una su tutte quella del cosacco itinerante Il’ja Peregud, il cui cuore e la cui
anima sono “alimentati a vodka”.
A sorprendere in Pavlov
è uno stile tanto innovativo e di grande personalità quanto classico:
impossibile, leggendolo, non ricordare il Gogol delle Anime Morte o de
L’ispettore generale, la sua esagerata iperbolizzazione del grottesco ottenuta
attraverso procedimenti semantici e fonici, la sua capacità di suscitare
ilarità nei momenti narrativi più drammatici. E insieme la profonda
introspezione umana e psicologica di Dostoevskij, la tragedia lirica di
Arcipelago Gulag di Solženicyn. Ci sono scene – come l’ “affare dei sette”
soldati fulminati vivi da un cavo elettrico mentre picconano escrementi
congelati nella latrina intasata, o l’ordine del reggimento di curare feriti e
malati sul posto in quanto “la sola disponibilità di un letto d’ospedale
indeboliva parecchio la disciplina” – che non sono forse abbastanza surreali ai
fini della satira, ma solo quel tanto da discostarsi appena dalla realtà. Il
romanzo abbonda di questi episodi abilmente bilanciati e cadenzati, tanto da
suscitare un inquietante dubbio: che la vera tragedia della vita nei lager e
campi militari sia tale da rendere sufficiente una leggera indoratura perché si
trasformi in farsa.
Oleg Pavlov (Mosca,
1970) è uno degli autori più dotati e stimati del “rinascimento letterario”
russo contemporaneo. Molto giovane ha prestato servizio a Karaganda come
guardia carceraria, testimoniando ogni sorta di degradazione umana; alla fine
una grave commozione cerebrale l’ha portato a essere ricoverato presso
l’ospedale psichiatrico locale. Ha lasciato l’esercito all’età di vent’anni a
causa di una diagnosi di “instabilità mentale” e scritto questo suo primo
romanzo breve semiautobiografico a ventiquattro. Leggendo Arcipelago Gulag di
Solženicyn, afferma di avervi scorto esattamente il lager in cui aveva
lavorato. Negli ultimi anni di vita di Solženicyn, è diventato suo allievo e
aspira a proseguirne la grande opera. Nel suo insieme, la sua trilogia
narrativa fornisce un resoconto ironico ma agghiacciante di cosa volesse dire
essere un soldato nelle remote regioni asiatiche dell’ex impero sovietico nel
momento insieme tragico e assurdo della sua dissoluzione.
Premi letterari:
Novy Mir Literary Magazine Prize (1995)
October Literary Magazine Prize (1997 e 2002)
Russian Booker Prize (2002)
Premio Solženicyn
(2012)
Finalista Prix du
Meilleur Livre Étranger (2012)
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